Matteo Adreani, il motociclista geek

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SI VESTE DA SEMPRE CON SNEAKERS, JEANS, MAGLIETTA E GIUBBOTTO DI PELLE «PRIMA CHE DIVENTASSE UNA MODA» DICE. IL SUO PRIMO RICORDO IN SELLA RISALE ALL’ETÀ DI CINQUE ANNI QUANDO, ACCELERANDO, HA SPACCATO UNO STINCO AL PAPÀ. IL QUARTO EPISODIO DEL NOSTRO VIAGGIO CON JAMESON ALLA SCOPERTA DEI PERSONAGGI CHE CONDIVIDONO I LORO VALORI CON IL BRAND DI WHISKEY IRLANDESE È ARRIVATO ALLE FONDERIE MILANESI DOVE, ASSIEME A BMW, ABBIAMO CONOSCIUTO MATTEO ADREANI, ORGANIZZATORE DEL DGR ITALIANO E FONDATORE DI THE REUNION, L’EVENTO ITALIANO PIÙ GRANDE DI SCRAMBLER, CAFE RACER E CLASSICHE: «QUANDO FACCIO LE COSE LE FACCIO MOLTO SINE METU, GUARDANDO SEMPRE AVANTI E MAI INDIETRO»

Ognuno di noi fantastica. Da bambini lo si fa a tempo pieno. Da grandi ci moderiamo, ma non rinunciamo mai del tutto a questo svago: soprattutto quando inseguiamo una passione forte, pulsante e che divampa in noi sin dalla tenera età. Possiamo accantonarla per qualche anno o assopirla con altre distrazioni lavorative, ma alla fine tornerà più forte di prima pretendendo la nostra totale attenzione. Proprio così, mentre mi avvicino al portone in ferro battuto delle Fonderie Milanesi, sono questi i pensieri che precedono il mio incontro con Matteo Adreani, fondatore e organizzatore di The Reunion. Attraverso il vetro lo scruto furtivamente e capisco al primo colpo quanto il suo sguardo sia amichevole ma, allo stesso tempo, intravedo la consapevolezza di chi sa di aver percorso e forgiato giorno dopo giorno il suo talento e le sue curiosità in direzione delle sue passioni. Giacca di pelle, jeans e t-shirt e cuffiette di ultima generazione che sbucano da una tasca. Tutto, compresa la location, appare sospeso tra classico e moderno, in modo naturale e per nulla forzato. Da fuori tutto sembra essere al di là del tempo, una sensazione particolare, ma decisamente interessante e forse ideale per conoscere il mondo di Matteo. Apro la porta, sorrido e mi presento sedendomi su uno sgabello al suo fianco.

Raccontami com’è iniziato tutto.
«Nasco a Milano, mezzo milanese e mezzo veneziano, da sempre appassionato di moto. La prima volta che ci sono salito avevo cinque anni, in campagna a casa mia in giardino. Mio padre mi mette sopra questa BM, un 50 cc monomarcia. Non era la prima volta che sedevo su una moto, perché venivo scarrozzato da mio fratello di otto anni. D’altronde stiamo parlando degli anni Settanta, c’era un concetto di sicurezza diverso: niente casco, due bambini su una motoretta. Certo, era un cinquantino della potenza di un cavallo e mezzo, ma c’era un’altra percezione del pericolo rispetto ai nostri tempi. Era arrivato finalmente il mio momento, io seduto sulla moto con le mani sui comandi e chiedo a mio padre quale fosse la leva dell’acceleratore. Nemmeno il tempo di ascoltarlo che accelero a tutto gas. Risultato? Gli piombo addosso aprendogli uno stinco con il parafango d’acciaio. Nulla di traumatico, ma questo è stato il mio esordio in quel mondo. Da allora ho sempre voluto moto nella mia vita. A 18 anni sono stato messo di fronte a una scelta da mio padre: vendere la mia Honda NS125 per comprare l’auto. Anche in quell’occasione ho fatto di necessità virtù e, dato che l’anno precedente era passata la legge sulla non obbligatorietà del casco, be’, niente moto, ma avevo la possibilità di andare in motorino con il vento tra i capelli! Per un anno ho avuto solo quello, ma dopo diversi lavoretti, molti salvadanai rotti e tanti sacrifici, mi sono comprato una Yamaha RD 350 usata, ma praticamente nuova di pacca. Era la moto più pericolosa del mondo perché era un due tempi che andava fortissimo e frenava pochissimo. In quel momento l’ho vissuta come la moto più emozionante della mia vita, non che non ne abbia avute di più emozionanti, ma il passaggio dal motorino alla RD 350 non è stato affatto graduale. Se poi aggiungiamo che per frenare bene dovevo mettere giù i piedi, ti ho detto tutto».

Com’è nato il tuo amore per le moto classiche?
«Il custom in Italia è stato portato da Carlo Talamo, quindi io e i miei amici andavano in via Niccolini, loro guardavano affascinati la Numero 1, mentre io avevo occhi solo per la Numero 3 e le Triumph customizzate. Da quel momento mi sono appassionato al genere, ho cominciato ad amare le moto classiche e a un certo punto della mia vita mi son trovato a un bivio: continuare a guidare le sportive o passare alle classiche».

E quando hai avuto davanti questo bivio?
«Un evento mi chiarì la strada da prendere… letteralmente! Sarà stato verso la fine degli anni Novanta, ma lo ricordo come se fosse ieri. Stavo facendo il classico giro Lecco-Bellagio-Como con la mia CBR 600 e dopo aver impostato una curva cieca, sfoderando una piega da manuale mi ritrovo, a pochi metri da me, in centro traiettoria e nella mia carreggiata un gruppo di ciclisti. Un gruppo non in fila indiana, come da codice stradale, ma un gruppone stile Giro d’Italia».

Bruttissima situazione, che cosa hai fatto?
«Ero in piega a forte velocità. Frenare? Nemmeno a pensarlo, sarei caduto immediatamente, così ho parzializzato il gas e mi sono attaccato al clacson e, nello spiraglio creatosi dallo spavento che anche i ciclisti hanno provato, sono riuscito a passare tra le fila, in un modo quasi miracoloso. Lì ho capito che su strada è impossibile gestire l’imprevisto. Ho capito che era meglio usare la supersportiva solo in pista».

Quindi ti sei dato alla pista?
«Si, da lì ho guidato praticamente solo ed esclusivamente sportive in pista, fino al 2007, anno in cui ho venduto l’ultima e sono passato alle motociclette classiche o a quelle improbabili. Possiedo ora diverse moto classiche tra cui una Triumph Thunderbird Sport, una Scrambler a carburatori, una Honda SLR Vigor che aspetta da due anni di diventare una special e una Yamaha WR250 da enduro con telaio in acciaio».

E dalle moto classiche ti sei ritrovato subito circondato da appassionati…
«Non così velocemente! Piano piano, con il tempo. Tra i vari eventi che mi sono sempre piaciuti c’è il Glemseek 101: è sempre stato l’evento di riferimento per le moto classiche. Nel 2011 mi sono ritrovato a non essere più circondato da amici per fare giri in moto. C’era chi l’aveva venduta, chi non la usava spesso e, così, ho creato un motoclub Triumph per trovare nuovi amici con cui condividere la mia passione. Nel 2012 fondo il Triumph Club Milano che ha riscosso molto successo tanto che, quando alla Fiera di Milano ho incontrato Nick Bloor, fondatore del marchio inglese, mi ha detto: “Hi Matteo, I heard a lot about you, you running themost active Triumph club on earth”. Ti rendi conto quanto mi lusingarono le sue parole? Quello che feci per il club forse è anche merito del mio background di marketing. Mi ero approcciato alla gestione del club nel modo più professionale che conoscessi e questo ha dato bei frutti».

E poi?
«Nel 2014 organizzo il primo Distinguished Gentleman’s Ride a Milano. La manifestazione è nata in Australia nel 2012 da Mark Hawwa, che un giorno mi contatta personalmente per esportare l’evento anche in Italia, riesco a organizzarmi e, con mia grande sorpresa, nel 2014 il DGR italiano è stato quello con più partecipanti al mondo. Dopo diverse edizioni arriviamo al 2017, dove ci onora della sua presenza Mark Hawwa in persona in compagnia di Julien Tornare, Ceo di Zenith».

E qui arriviamo alla genesi di The Reunion…
«Nel 2014 avevo capito che c’era voglia di comunità nel segmento cafe racer, scrambler e classiche. Avevo percepito che le persone volevano riunirsi per condividere una passione e anche le Case motociclistiche sembravano interessarsi sempre più alle customizzazioni. Yamaha, BMW, Ducati, Triumph, Moto Guzzi stavano iniziando a investire su moto classiche o su concept d’ispirazione classica, qualcosa si stava muovendo… Il mondo classic non era più una piccola nicchia per affezionati, ma stava diventando un movimento vero e proprio. Quindi ho dedotto che anche le Case avrebbero cercato di sostenere il movimento economicamente e ho unito un po’ di idee. Ho parlato con il fondatore di Glemseck 101, ho cercato di capire come muovermi per fare un evento anche qui, in Italia. Per caso, durante una cena, un amico mi disse che all’Autodromo di Monza avevano cambiato tutto il management e mi proposi al direttore Francesco Ferri. Mi offrì la possibilità d’inserire il mio evento all’interno della Monza Biker Fest a due mesi dalla manifestazione. Inutile dirti che ero un po’ stretto con i tempi organizzativi, ma decisi di accettare seppur partendo con un budget basso, ma forse questa fu la mia fortuna. La gente venne all’evento proprio perché semplice, spontaneo e, grazie a questa miscela vincente, con gli anni si ingrandì gradualmente, ma sempre in modo costante. Dopo il 2016, grazie alla credibilità guadagnata, mi sono concentrato sull’internazionalizzazione di The Reunion, facendo sostanzialmente delle partnership con Sultans of Sprint, l’evento più figo di sprint race d’Europa, e con Glemseck, il cafe racer festival. Collaborazioni che ci hanno regalato ancora più visibilità all’estero portandoci per numero di partecipazioni, di pubblico, giornalisti e team a livelli eccellenti».

E il 2018 è l’anno della consacrazione internazionale…
«Quest’anno abbiamo anche partecipato attivamente a Glemseck, in Germania. Proprio lì avevamo una tenda di circa settanta metri quadri dove ho invitato tutti gli amici customizzatori italiani più fighi. Su carta sarebbe dovuta diventare una piccola Little Italy, cosa che effettivamente accadde, ma non credevo con un tale successo. Sarà stata la nostra autoironia o l’aver portato cucine professionali dove preparavamo due volte al giorno pasta per amici. Incredibile ma vero, abbiamo ricevuto persino i complimenti da parte dei tedeschi per l’efficienza e l’organizzazione. Assurdo».

Come sei nella vita privata?
«Nella vita privata sono un geek, un nerd, ho tantissimi gadget tecnologici sempre con me. Questo deriva, molto probabilmente, dal fatto che nel 2006 ho fondato una web agency insieme a un amico. Nel 2013 ne sono uscito, ma quel mondo tecnologico credo mi abbia plasmato e aiutato nella gestione e organizzazione di The Reunion. E poi un’altra caratteristica tutta mia è questa – si indica dal basso verso l’alto – pensa che da sempre mi vesto così. Sneakers, jeans, maglietta e giubbotto di pelle, quando ancora non andavano di moda in Italia. Prima ero ritenuto un tamarro da moto, adesso invece che tutti si vestono così, che questo stile va di moda, sono contento perché senza volerlo faccio parte di quelli fighi. Insomma, un geek motociclista, grande appassionato del mondo classico, ma anche di tecnologia. Non vedo contraddizione».

Perché? Spiegami, sono curioso…
«Se vogliamo essere precisi non sono per la tecnologia fine a se stessa, ma per quella che ti permette di fare, creare. Quella funzionale, diciamo. Deve essere uno strumento, un mezzo. Mi piaceva l’internet dei primi anni Novanta, non tanto per le innovazioni tecniche, ma perché ti permetteva di comunicare con persone grazie alle email. Creavi interazione, reti interpersonali, miglioravi la comunicazione. A me non interessa avere la fotocamera da venti milioni di pixel, mi interessa la fotocamera che mi permetta di fare belle foto che posso usare. Punto».

Secondo te perché Jameson ti ha scelto come testimonial?
«Credo perché quando faccio le cose, qualsiasi siano, le faccio sempre molto Sine Metu guardando avanti e mai indietro. Certo, con coscienza, ma se devi saltare un precipizio devi correre e guardare solo dove vuoi arrivare, non c’è tempo per voltarsi. Se guardi indietro non riuscirai a fare il salto. Con la nascita di The Reunion, in quel momento non avevo fatto ancora nulla a livello professionale nell’ambito delle moto, però avevo avuto qualche piccola soddisfazione. A quel tempo molti mi chiedevano dubbiosi se fossi sicuro della strada che stavo percorrendo, ma ero certo del successo e, con un po’ di sana incoscienza, ho raggiunto traguardi importanti e di cui vado fiero. Ora The Reunion è tra i primi tre eventi europei, già solo poterti dire questo mi rende felice. Non sono una persona che nega l’evidenza davanti a un errore, tutti facciamo costantemente errori, ma il trucco è rialzarsi sempre dopo una caduta e continuare ad andare avanti. L’errore non porta a un fallimento, ma solo a un feedback da valutare per poter crescere costantemente».

 

Articolo di Marco Marcello Bina
Foto di Valen Zhou

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