Paolo Nespoli

HA TRASCORSO 313 GIORNI NELLO SPAZIO, MA PER ARRIVARE FIN LASSÙ HA AFFRONTATO UN LUNGO PERCORSO CHE LO HA PORTATO A CONOSCERE I SUOI LIMITI, SUPERARLI E INFINE RAGGIUNGERE LE STELLE. CINQUANT’ANNI DOPO LO SBARCO SULLA LUNA, ELEONORA DAL PRÀ HA INCONTRATO L’ASTRONAUTA PAOLO NESPOLI, UNO CHE DA BAMBINO SOGNAVA COSE IMPOSSIBILI, E A UN CERTO PUNTO DELLA VITA SI È SVEGLIATO E SI È DATO DA FARE PER REALIZZARLE

Articolo di Eleonora Dal Prà

Riders si è sempre occupato di tutto, lo dice la sua storia. E vi ha accompagnato ovunque, nel pianeta, con tutti i tipi di mezzi e attraverso ogni sorta di luogo e ambiente, naturale o artificiale che fossero.

Ma non vi aveva mai portato fuori dal mondo. Questa volta si è superato e vi condurrà addirittura nello spazio… L’incontro con lastronauta Paolo Nespoli è un viaggio che da immaginario diventa quasi reale, per tutti noi, per il modo in cui lui stesso, per primo, ha raggiunto il suo traguardo interplanetario. Faccia da duro e modi… altrettanto. La cosa che di lui affascina almeno quanto le sue imprese è il vissuto precedente, da comune umano, con le insicurezze, le sconfitte e i sogni infranti. Ma è la dimostrazione vivente che, a non arrendersi, prima o poi si arriva. Signore e signori, Mr. Nespoli, l’Extraterrestre, nel suo viaggio di vita.

Paolo Nespoli

Classe 1957, originario di Verano Brianza, Paolo Nespoli ha compiuto tre missioni sulla Stazione Spaziale Internazionale, una volta con lo Space Shuttle statunitense e due con la Soyuz russa, per un totale di 313 giorni totali trascorsi in orbita (foto: Alessandro Barteletti).

«Gravity sucks!»… Confermi anche a distanza di tempo?

«Sì, confermo, tant’è vero che recentemente mi sono frantumato un piede perché ho osato sfidare la gravità. Il momento di transizione dalla Terra allo spazio, quando da terrestre diventi extraterrestre, è abbastanza complesso. Non te ne rendi conto, ma piano piano ti liberi di tutti i blocchi derivanti dalla forza peso e assumi una dimensione totalmente nuova. Diciamo una sesta dimensione: estremamente bella e liberatoria. Dopodiché, quando torni sulla Terra e ti senti piombare addosso la forza di gravità, è come avere sopra una coperta che progressivamente si fa sempre più pesante, e a quel punto mi sono detto: ma io devo passare il resto della mia vita vita così, in prigione?! Dunque, quando ricominci a dover negoziare con questa forza opprimente e tutte le problematiche legate al fatto che per spostare un oggetto devi valutarne il peso, tu pesi, tutto pesa, il sistema vestibolare ti fa impazzire perché ti dà tutta una serie di sensazioni che prima non avevi, concludi che gravity sucks! e che è molto meglio quando non c’è».

Che cosa cambia, invece, a livello di consapevolezze?

«Quando acquisisci questa sesta dimensione in buona parte del tempo non hai la consapevolezza del tuo corpo. Noi qui volenti o nolenti ce l’abbiamo perché la gravità ti tocca, in un certo senso, e c’è sempre qualcosa che ti ricorda che sei un corpo, oltre che un’anima. Nello spazio invece no. La percezione del corpo, a meno che non entri in contatto con qualcosa, non c’è perché non sei appoggiato a niente. Addirittura in certi momenti guardi le cose e le interpreti come anima. È il tuo soul, la tua parte immateriale, il tuo essere che guarda la Terra da lassù, non è il tuo corpo. Qui, invece, è difficile fare questa distinzione».

Paolo Nespoli

Paolo Nespoli varca la soglia del portello che collega la Soyuz alla ISS, e inizia la Expedition 52/53 (foto: ESA/NASA)

Com’è fatta la Stazione Spaziale Internazionale?

«La ISS è una casa-laboratorio composta da una decina di moduli pressurizzati delle dimensioni di vagoni ferroviari collegati tra loro da boccaporti. All’interno di questi vagoni lo spazio libero è un corridoio di circa due metri per due. Dappertutto – pavimento, soffitto, pareti – ci sono apparecchiature tecniche o scientifiche, o depositi di materiali. La Stazione orbita attorno alla Terra alla quota di quattrocento chilometri e alla velocità di 28mila chilometri all’ora, circa otto chilometri al secondo. La forza di gravità terrestre la fa cadere verso la Terra, ma a quella velocità l’entità della caduta è pari alla rotondità della Terra, col risultato che la Stazione le cade attorno senza mai toccarla. Grazie a questo, sulla ISS non si percepisce la forza di gravità e si possono compiere una serie di cose impossibili da fare sul nostro pianeta».

 

Dopo lesperienza da incursore nel Contingente Italiano della Forza Multinazionale di Pace in Libano e dopo quella da astronauta, entrambe estremamente forti per aspetti diversi, che cosa riesce a farti emozionare, oggi? Tutto il resto deve essere di una noia mortale!

«È molto soggettivo, ma non sono diventato immune alle emozioni quotidiane: mi entusiasmo sempre davanti a un buon pasto, una bella persona, una situazione, un’esperienza nuova. E, se da un lato è vero che ho vissuto cose fuori dall’ordinario e potrebbe sembrare che mi manchino, dall’altro ho realizzato che, dal momento che non potrò più ripeterle e devo vivere di ricordi, è meglio non mettersi nella condizione di farsi mancare ciò che non hai, ma guardare la cosa da un’altra prospettiva pensando di essere stato fortunato. Sono riuscito ad andare nello spazio, non solo ho raggiunto gli obiettivi che mi ero prefissato, ma ho archiviato esperienze che mai avrei immaginato di poter vivere. Quindi i ricordi e le sensazioni che ho provato non mi rattristano: al contrario, mi fanno capire quanto sono stato privilegiato».

 

Lo spazio ti ha dato tanto sotto molti punti di vista; ma c’è qualcosa che in un certo senso ti ha tolto?

«No, io ho conservato solo una visione positiva dello spazio. E questo capita anche quando incontro altri colleghi. Sul colletto della camicia ho appuntato lo stemma del Corpo Astronauti al quale è associato un grande senso di appartenenza; addirittura, quando mi vedono quelli dell’Apollo, mi invidiano per essere stato in orbita 313 giorni, nonostante loro siano stati sulla Luna! Queste cose sono speciali. Per il resto, chiaramente non è stato facile, è stato un percorso lungo, ho aspettato tanto, ho vissuto momenti piuttosto pesanti, subito decisioni prese non per motivi tecnici ma politici, per esempio non sono riuscito a fare la passeggiata spaziale che avrei tanto desiderato… Ma alla fine va bene così, guardando la mia carriera dico: eh, se avessi potuto farla… dall’altro lato, però, se ripenso al ragazzino che diceva: voglio andare sulla Luna!».

E oggi…

«Oggi, cinquant’anni dopo, riconosco di aver fatto molto più di ciò che pensavo possibile. Questa, secondo me, è una lezione di vita: dobbiamo scommettere sul futuro, essere pronti ad afferrare le opportunità che ci arrivano, ma anche prepararci ad accettare le occasioni che non avremo. Spetta a noi cogliere le une e far pace con le altre. Io sto cercando di farlo, sapendo che forse ne ho avute più di quelle che avrei meritato».

Be’… te le sei sudate!

«È vero, a me non è mai venuto niente gratis. Il desiderio di diventare astronauta, che avevo fin da bambino, ha lasciato ben presto spazio alla convinzione che si trattasse di un obiettivo irrealizzabile e, dopo il liceo, a un percorso pieno di dubbi che mi ha spinto a restare nell’esercito dopo l’anno di leva. E a 26 anni, quando credevo che ormai la mia strada fosse segnata, una domanda a bruciapelo: “Cosa vuoi fare da grande?” mi ha fatto mettere tutto in discussione e ricominciare da zero per rispolverare quel sogno nel cassetto. Mi sono messo a studiare ingegneria aerospaziale negli Stati Uniti e ho imparato l’inglese per partecipare al concorso che, però, non ho superato. Quattro anni dopo ho ritentato, ma ancora senza successo».

Paolo Nespoli

Per prepararsi alle missioni spaziali gli astronauti vengono sottoposti ad anni di addestramento massacrante dove devono imparare a lavorare in team in condizioni estreme e pericolose. Tra questi: trovare la strada per tornare da un’isola dell’Alaska sui kayak alla presenza di orsi; cercare l’uscita e mappare una grotta completamente buia e parzialmente allagata in Sardegna; svolgere simulazioni all’interno di un angusto container sottomarino in Florida; eseguire simulazioni di atterraggio del modulo di rientro in una foresta a trenta gradi sottozero, dove sopravvivere per giorni in attesa dei soccorsi (foto: Alessandro Barteletti).

E intanto…

«E intanto il tempo passava, avevo raggiunto i quaranta e ormai ero fuori dalla fascia preferenziale di selezione degli astronauti, 27-37 anni; quando è uscito il terzo bando pensavo fosse inutile fare domanda anche perché, se nel primo c’erano molti candidati e nel secondo il doppio, adesso erano tantissimi: perché mai avrebbero dovuto scegliere me? Ma io, testardo, ho tentato ugualmente e, tra migliaia di aspiranti astronauti, nel 1998 sono stato uno dei due selezionati dall’Agenzia Spaziale Italiana per essere inviato prima all’Agenzia Spaziale Europea e poi alla NASA. Ho puntato a obiettivi difficili e, in generale, sono riuscito nell’intento di raggiungerli, però non mi è mai stato regalato nulla, ho sempre dovuto sudare le proverbiali sette camicie, anche otto o nove. A volte, purtroppo, ho faticato così tanto a conquistarli, che poi non sono riuscito a godermeli».

Per esempio?

«La seconda missione. Sarebbe dovuta essere sullo Shuttle per una missione di corta durata, invece mi hanno mandato in Russia per addestrarmi sulla navicella Soyuz e stare sulla Stazione Spaziale Internazionale per sei mesi. Ma porca miseria! dieci anni per addestrarmi e quando sono pronto mi cambiano i programmi e devo ricominciare da capo un’altra volta».

Navicella Soyuz

Partita il 28 luglio 2017 dal cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, la navicella spaziale Soyuz MS-05 arriva alla Stazione Spaziale Internazionale sei ore dopo (foto: ESA/NASA).

Comunque è bello il messaggio che diffondi quando chiedi ai bambini cosa vogliono fare da grandi; adesso che si cercano la gratificazione immediata, i soldi, il successo, come si può trasmettere un modello che vada oltre lapparenza e che faccia capire che per arrivare bisogna lavorare duro?

«Secondo me è sempre stato così. Oggi il messaggio è più potente perché i metodi di comunicazione per attirare la nostra attenzione hanno bisogno di essere sfavillanti, rumorosi, oltraggiosi, e quando devi scegliere è più facile andare in quella direzione. Ma credo che alla fine i ragazzi si rendano conto che la vita non è proprio così e che devono trovare la loro strada con fatica. Il problema è che non dobbiamo farli sentire falliti. A volte i ragazzi con cui parlo dicono di voler diventare astronauti per essere ricchi e famosi, ma io non sono né ricco né famoso, sono una persona normale. Sono ricco dentro, nel senso che faccio un lavoro che mi piace: astronauta, pittore, carrozziere… non importa; se lo fai bene sei una persona di successo».

In Italia temiamo il fallimento, cosa che in America è vista come un passaggio per imparare.

«Qui aleggia una forte ansia legata al fallimento e all’errore, che sono visti come una macchia che non ti scrollerai mai di dosso e che fa di te un perdente. Alla NASA ho imparato che non è così: durante le simulazioni succedeva che uno di noi commettesse un sbaglio che, in orbita, avrebbe portato a conseguenze tragiche, e durante il debriefing il direttore di volo spiegava che l’errore apparteneva a loro come organizzazione, in quanto quest’ultima era responsabile di aver indotto l’astronauta a sbagliare. Così apriva un’inchiesta interna per indagare e cambiare la procedura; è tutto il sistema che si prende la responsabilità».

A causa di questa mentalità, persone che magari potrebbero fare grandi cose hanno paura di buttarsi.

«Esatto, è un approccio tipico europeo, invece commettere errori è importante perché significa che ti stai avventurando in un’area che non conosci. Continuando a svolgere sempre le stesse mansioni diventi bravo, ma nel momento in cui l’ambiente che ti circonda cambia, morirai perché non ti sai adattare. È la vita stessa che muta continuamente: se non ti guardi attorno, non innovi, non provi cose inedite, diventi un dinosauro e ti troveranno fossilizzato cinquemila anni dopo. Se invece ti aggiorni stai esplorando un’area che non conosci ed è semplicemente normale sbagliare. Per trovare la strada giusta devi fare dei tentativi, quello che non va bene è cadere in fallo senza imparare, anzi, le aziende dovrebbero premiare i dipendenti che commettono gli errori genuini, perché così facendo individuano problemi che prima erano sfuggiti. Questo è ciò che accade alla NASA».

Paolo Nespoli

Nespoli all’interno della Cupola, un modulo di osservazione e controllo che ospita un sistema che gestisce e comanda il braccio di carico della Stazione. Costruita in Europa da Thales Alenia Space Italia (TAS-I) sotto contratto dell’Agenzia Spaziale Europea, offre viste spettacolari della Terra e di oggetti celesti, e gli astronauti vi si recano per guardare il mondo che passa sotto di loro e scattare fotografie (foto: ESA/NASA).

È vero che la NASA considera lastronauta una risorsa, come lacqua e la corrente?

«Sì, alla stregua di materiali, equipaggiamenti, spazio fisico, altre risorse come acqua, energia, ossigeno. Il tempo-astronauta, ovvero la disponibilità fisica di un astronauta per compiere un’azione è una delle risorse che vengono gestite con estrema attenzione. Oserei dire che si tratta della risorsa più scarsa, tant’è vero che spesso e volentieri diverse attività restano in sospeso per settimane, se non mesi, per mancanza del tempo-astronauta. A Houston c’è un gruppo di pianificatori che controlla quali attività vengono svolte a bordo e dal quale noi astronauti siamo considerati al pari delle altre risorse della Stazione che, da questo punto di vista, è gestita sostanzialmente come una casa-laboratorio dove, oltre ai vari esperimenti, è necessario anche eseguire manutenzione, pulire, far da mangiare… insomma tutte le cose che servono per farla funzionare».

Il lavoro dalla Terra in un certo senso è più complesso?

«Mettiamola così. La responsabilità del raggiungimento degli obiettivi di missione non è degli astronauti a bordo, è del direttore di volo che sta a Terra. Come dire, la responsabilità in una gara di Formula 1 è del direttore tecnico, non del pilota. Sebbene quest’ultimo abbia un ruolo importantissimo perché è sulla macchina, è il direttore tecnico a identificare obiettivi e strategie. L’astronauta è un esecutore, ma qualcun altro deve pianificare e metterlo nelle condizioni di svolgere il suo lavoro nel miglior modo possibile. Per cui le cose importanti sono due: tu sei una risorsa di bordo e sei parte di un team. E ogni tanto è il team che ha precedenza sulla persona. Sulla Stazione non c’è il supereroe che fa tutto da solo, è una squadra che lavora. Per quanto tu possa avere un ego smisurato, per quanto bravo possa sentirti, di fatto, se non avessi il team a Terra che ti prepara, ti segue, ti impedisce di fare errori, se non avessi gli altri astronauti in orbita che ti aiutano, non potresti risolvere certi problemi».

Assieme ai rifornimenti, sulla ISS arrivano anche dei contenitori-dono da parte dei familiari, scherzosamente chiamati pacchi della Croce Rossa. Se adesso potessi fartene spedire uno dallo spazio, quindi al contrario, che cosa vorresti?

«Be’ dalla Stazione avrei voluto portare dei piccoli pezzi di esperimenti o di oggetti che alla fine sono stati buttai via; li avrei consegnati alle persone che hanno lavorato dalla Terra come ricordo, dicendo loro: ecco, questo è andato nello spazio, perché si ricordassero di quello che sono riusciti a fare. Ci ho anche provato, ma la NASA me li ha sequestrati. Ecco, mi farei mandare questo».

Tra i tanti ostacoli che hai dovuto affrontare c’è una paura che non supererai mai?

«Paura no. Quello della NASA è un ambiente molto competitivo dove vieni giudicato in continuazione, e ogni tanto rifletti e ti chiedi se sarai in grado di farcela. Io non dico di aver dubitato delle mie capacità, ma ho pensato che forse stavo facendo il passo un po’ lungo… Alla fine, invece, sono sempre riuscito a performare a un livello decente, in alcuni casi anche al top. Però c’è quest’ansia, forse, ogni tanto: devi continuamente dare il massimo perché sei parte di un team dove tante altre persone dipendono da te».

Il satellite ТС530

Il satellite ТС530-Зеркало messo in orbita dai cosmonauti Sergey Ryazanzy e Fyodor Yurchikhin durante l’attività extraveicolare EVA 43, il 17 agosto 2017 (foto: ESA/NASA).

Si vedono le conseguenze del cambiamento climatico addirittura dallo spazio.

«Sì, in una foto si vede la Pianura Padana coperta da una coltre di smog. Quando sei nello spazio accadono due cose. La prima è che acquisisci un modo di guardare la Terra completamente diverso. Qui scorgi solo ciò che ti circonda senza badare al resto mentre, allontanandoti, vedi che in un minuto passi sopra la Spagna, l’Italia, la Francia, l’Austria e tutto il resto. Realizzi che siamo tutti nello stesso posto, non c’è nessun confine. Siamo tutti sulla stessa nave, e quindi forse è bene che lavoriamo assieme, indipendentemente da nazionalità, religione, cultura. La seconda cosa è che siamo ovunque, sembriamo una ragnatela che avvinghia questo pianeta e ciò si avverte maggiormente di notte, quando tutto il mondo si accende. È fuori dubbio che ‘sto pianeta lo stiamo cambiando, ed è fuori dubbio che stiamo cambiando le condizioni che permettono a noi umani di viverci».

Adesso c’è un po’ più di consapevolezza, si sta muovendo qualcosa?

«La consapevolezza c’era anche prima, il problema è che dobbiamo agire. Il nostro modo di vivere è molto dispendioso e sfrutta le risorse in modo forsennato. Parlo anche per me eh, per esempio io domani torno a Houston con un volo intercontinentale che emetterà un’enorme quantità di gas di scarico».

D’altronde è impossibile vivere a impatto zero…

«Se da un lato probabilmente è impossibile, dall’altro potremmo fare tante cose per cambiare. Ognuno di noi dovrebbe smettere di pensare che le risorse siano infinite, ma riflettere sul costo che provoca all’ambiente. Noi siamo un piccolo granello e dobbiamo comportarci di conseguenza e comunque, per quanto puliti, ecologici e sostenibili possiamo essere, di fatto siamo troppi su questo pianeta. A impattare è semplicemente la nostra presenza. Qual è la specie vivente che ha avuto più successo fino ad ora? Prova a rispondere a questa domanda».

I batteri?

«A me sembra siano le piante. Se tu smetti di intervenire sull’ambiente, tra qualche anno questo si ricoprirà di vegetazione. Le piante sono estremamente invasive. E noi, che ci siamo evoluti per utilizzare l’ossigeno, ovvero gli scarti della specie vivente che ha più successo, che cosa facciamo? Tagliamo le piante! Le bruciamo perché abbiamo bisogno di più spazio. È un processo complesso in cui non sarà facile intervenire. Comunque direi che ci troviamo a un punto storico dove la consapevolezza che stiamo abusando delle risorse delle Terra c’è. La consapevolezza che stiamo inducendo dei cambiamenti difficilmente rallentabili, anche quella c’è. E sono tutte cose estremamente importanti, specialmente nei giovani, perché alla fine il mondo sarà loro».

Un’ultima cosa: Oriana Fallaci ti ha preso a pugni (metaforicamente).

«Sì, metaforicamente! Era una donna molto dura, anzi, realista al punto di essere brutale. Lei faceva così quando interagiva con le persone, ma andava bene perché ogni tanto ci vuole qualcuno che ti sbatacchi un po’. Le sono grato per avermi messo un attimo in crisi chiedendomi cosa volevo fare da grande, e alla mia risposta: vorrei fare l’astronauta, ma non si può fare, è rimasta a guardarmi esclamando: “Perché non si può fare? Datti da fare, svegliati!”. Tutte le volte che si parla di lei in un’intervista poi c’è un titolo grosso così. Che Oriana Fallaci sia stata importante a un certo punto della mia vita è fuori discussione, però affermare che “Paolo Nespoli è nello spazio grazie alla Fallaci” è esagerato. Detto questo, è vero che è stata Oriana, in un momento particolare della mia vita, a farmi questa domanda in un modo un po’ duro, come lei era capace. E devo essere sincero, mi ha scosso. Era quello che ci voleva per buttarmi».

Un ringraziamento speciale al CICAP, che ha reso possibile la realizzazione di questo servizio.

 

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