Harris WCM, storia del brutto anatroccolo della MotoGP

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Al contrario di quanto accade nelle fiabe,  racer di peter clifford non diventerà mai cigno. ma rappresenta un coraggioso esperimento che vale la pena ricordare

 

di Manuele Cecconi

 

C’è stata un’epoca, quella delle 500 due tempi, in cui i team privati potevano davvero dire la loro anche nella Top Class del Motomondiale. Le formazioni satellite, con piloti e tecnici di rilievo, si permettevano di sfidare le squadre ufficiali sul palcoscenico principale e talvolta riuscivano persino a batterle. Il passaggio ai quattro tempi nel 2002 e la crescente esasperazione tecnologica segnarono il graduale declino dei “clienti” e delle squadre più piccole, che nella nuova MotoGP dei budget faraonici si ritrovarono ad essere tagliate completamente fuori dalla possibilità di lottare per la vittoria finale. A inizio anni duemila c’era tuttavia ancora chi, non senza una buona dose di ottimismo, credeva di poter continuare a prendere parte alla Classe Regina con strutture a gestione pressoché familiare e addirittura con prototipi autocostruiti. Era il caso, ad esempio, del team KR di Kenny Roberts Sr. E soprattutto della Harris WCM, una Yamaha R1 con un po’ troppi grilli per la testa.

Michel Fabrizio a bordo della Harris WCM. Correva l’anno 2004

 

Chiariamolo subito: la Harris WCM ci stava simpatica, e come a tutti gli appassionati ci sarebbe piaciuto parecchio vederla ottenere qualche risultato degno di nota. La verità, però, è che con il senno di poi quello di Peter Clifford e del suo “accrocchio” motorizzato Yamaha appare come esperimento quantomeno ingenuo. Non perché il manager britannico o suoi ingegneri fossero degli sprovveduti, ma per il semplice fatto che forse avevano sottovalutato la portata della svolta epocale dinanzi alla quale si trovava la massima serie. E se per privati – anche quelli che beneficiavano di un certo supporto dalle Case costruttrici – lo switch alle 990 aveva reso il successo un obbiettivo ancora più ambizioso, i cambi di regolamento del 2007 e la crisi economica avrebbero definitivamente messo la parola fine a qualsiasi speranza per satelliti e “assemblatori”.

Il re della derapata Garry McCoy si tolse belle soddisfazioni in sella alla Yamaha WCM

Le origini della Harris WCM vanno fatte risalire ai primi anni novanta, quando Peter Clifford e Bob MacLean fondano il team World Racing Motorsports. La squadra, che debuttò nel 1992, utilizzò telai ROC e propulsori Yamaha fino al 1997, quando la casa di Iwata le affidò le YZR 500 del fallito team Promotor. Assieme a questa partnership con i Tre Diapason arrivò anche il main sponsor Red Bull, che oltre a far cambiare denominazione al team portò anche una discreta dose di capitali.

Nel 1998 Simon Crafar ottenne, sotto le insegne del beverone austriaco, la prima vittoria iridata, bissata l’anno successivo dal francese Regis Laconi. È però il 2000 l’anno d’oro: a bordo della YZR 500 blu il re della derapata Garry McCoy riuscì a mettere la sua firma su ben tre vittorie, risultati che né l’australiano né il teammate Noriyuki Haga sarebbero riusciti a ripetere nel 2001.

 

Anche John Hopkins, futuro pilota Suzuki e wheelie king della MotoGP, mosse i primi passi nella Classe Regina con la squadra di Peter Clifford

Nel 2002, mentre le squadre factory iniziano a schierare le prime 990, WCM continua ancora con le due tempi come gli altri team satelliti. Nel frattempo, però, mentre McCoy ed un giovanissimo John Hopkins lottano in pista a bordo delle ronzanti 500, si inizia a programmare il futuro 2003, nella consapevolezza che lo sponsor Red Bull non sarà più della partita.

È in questo clima di incertezza che matura l’idea di unire gli sforzi con il noto telaista Harris per mettere in pista a propria volta una MotoGP a quattro tempi, auto-progettata a partire da un propulsore di serie. Il motore prescelto è il quattro cilindri in linea della Yamaha YZF-R1, opportunamente modificato per incrementarne le prestazioni nonché adeguarsi ad un regolamento che non facilita la partecipazione di unità derivate dalla serie.
È il periodo dell’accesa contrapposizione tra la MotoGP ed una World Superbike al massimo della sua popolarità: Dorna guarda di storto – e con un certo snobismo –  alla Harris WCM e al suo volgare quattro-in-linea di derivazione stradale. Ironia della sorte qualche anno dopo Carmelo Ezpeleta si sarebbe ritrovato a contare proprio sulle tanto discusse CRT per rimpolpare a tutti i costi una griglia ridotta ormai all’osso.

Sull’onda del passaggio alle 4T il team WCM collabora con Harris per realizzare una moderna MotoGP. Il budget? Basso

Non era un prototipo, non era una derivata – La moto viene approntata in tempi record e sebbene il propulsore dei Tre Diapason venga sottoposto a modifiche molto pesanti (ivi compresa la sostituzione della testata, che passa da venti a sedici valvole) la WCM rimane pur sempre una MotoGP a metà, una sorta di ibrido tra un prototipo “vero” ed una derivata di serie.
Come piloti vengono inizialmente ingaggiati Chris Burns e l’esperto Ralf Waldmann, ma poco prima dei test al Montmelò il tedesco abbandona la nave lasciando la squadra con un solo rider.

Lenta e inaffidabile – Nelle prove della prima gara, quel GP di Suzuka che sarebbe passato tristemente alla storia per la morte di Daijiro Kato, Burns si becca trenta chilometri orari dalle MotoGP più veloci. Come se non bastasse, tutti e quattro i motori portati dalla squadra cedono prima della corsa a causa di guasti meccanici, e domenica l’unica WCM volata in Giappone non prende nemmeno il via della gara. Praticamente un’ecatombe.

Il peggio, tuttavia, deve ancora venire. Alla squadra di Clifford viene infatti proibito di prendere parte al Gran Premio di Welkom, in Sudafrica. Il comunicato parla di irregolarità tecniche, contestando la stretta parentela con la R1 e sostenendo, in sostanza, che la Harris WCM non può partecipare al Mondiale perché non è un’autentica MotoGP. E in effetti, volendo applicare rigidamente un regolamento che rifiuta teste, cilindri e carter di derivazione stradale, non lo è. Tanto che anche i ricorsi presentati dalla squadra cadono nel vuoto, di fronte a sentenze che confermano a più riprese l’esclusione sancita dalla FIM. Ma Clifford è un osso duro, e non demorde: mentre avvia la costruzione di nuovi motori conformi al regolamento (stravolgendo ancor di più il progetto dei Tre Diapason) il manager britannico decide di andare in garage e ritirare fuori due vecchie glorie, una ROC Yamaha ed una Sabre V4 ormai obsolete che Peter intende far scendere in pista ad interim, come “tappabbuchi” in attesa del via libera della Federazione sui nuovi propulsori a 4T.

Dopo il “ban” della FIM Clifford non si diede per vinto: Peter tirò fuori dal garage due obsolete 500 a due tempi

La due tempi con telaio ROC viene affidata a Burns mentre sulla Sabre 500, anch’essa motorizzata Yamaha, sale lo spagnolo David De Gea, assoldato in sostituzione di Waldmann. Questa sorta di armata Brancaleone del Motociclismo da corsa si presenta in griglia a partire dal GP di Gran Bretagna, per poi correre anche al Sachsenring e in Repubblica Ceca.
Il verdetto del cronometro è ovviamente impietoso, ma è forse ancora più severo quello della speed trap: sul lungo rettifilo di Brno il povero Burns si becca qualcosa come 40 km/h dalla moto più veloce, la Ducati GP3 di Loris Capirossi, mentre la Sabre di De Gea ne accusa circa 35.

Alla vigilia del GP del Portogallo, però, WCM ha approntato un numero sufficiente di motori conformi al regolamento. La Harris WCM a quattro tempi, la R1 camuffata da MotoGP, si presenta dunque in griglia all’Estoril facendo segnare già velocità di punta superiori alla Proton. Il passo di gara è tuttavia un’altra cosa, e le moto di Clifford rimarranno sempre il fanalino di coda della classifica per tutte le restanti gare del 2003.

In vista della stagione successiva Clifford sostituisce De Gea con Michel Fabrizio, giovanissimo pilota romano che l’anno precedente ha trionfato nell’Europeo Stock con la Suzuki 1000 del team Alstare. Se escludiamo il decimo posto ottenuto rocambolescamente da Michel sotto la pioggia di Jerez, però, il 2004 non va come sperato, e il salto di qualità che il team si aspettava non avviene.

Nel 2005, sotto le insegne della ceca Blata, si chiuse l’avventura della WCM in MotoGP (qui in sella Battaini a Valencia)

E se arrivasse il V6? – Né Chris Burns né Fabrizio terminano la stagione, sostituiti nelle ultime gare da Youichi Ui e James Ellison. Ciò nonostante la musica non cambia, con le Harris WCM che non riescono a schiodarsi dal fondo nemmeno dopo l’avvicendamento dei piloti. Per il 2005 si vocifera di una partnership con Blata, azienda della Repubblica Ceca specializzata nella produzione di minimoto che sembra intenzionata ad approntare un V6 da 990 cc da montare sulla MotoGP di Clifford.

Il sei cilindri però tarda ad arrivare, e la “nuova” Blata WCM che fa capolino ad inizio 2005 è di fatto una versione migliorata della moto che ha corso l’anno precedente. A condurla ci sono il confermato Ellison e l’italiano Franco Battaini, futuro collaudatore Ducati che dopo anni passati nella duemmezzo decide di tentare l’avventura in Premier Class.

Non è più tempo per i piccoli – Qualche risultato incoraggiante arriva, ma è poca, pochissima roba: è ormai chiaro che il V6 è solo un miraggio, ma soprattutto che un piccolo team come quello di Clifford non può nemmeno pensare di competere in MotoGP contro i grandi costruttori. E infatti nel 2006 Peter alza definitivamente bandiera bianca, abbandonando la Classe Regina a quattro tempi dopo tre stagioni di insuccessi. La speranza è quella che si tratti di un arrivederci, ma una WCM in griglia non si sarebbe vista più, anche se il brutto anatroccolo delle 990 cc si sarebbe reincarnato qualche anno dopo nelle Claiming Rule Team. Il tempo dei “piccoli”, di quelli che Enzo Ferrari chiamava con un certo disprezzo “assemblatori”, era ormai giunto al termine nella Classe Regina del Motomondiale. Anche se ci sarebbe stato ancora spazio per una fiammata, grazie ai due Kenny Roberts e ad una concessione della Honda. Ma questa è un’altra storia…

 

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