La pandemia ha cancellato il concetto di mondo globale, rilanciando particolarismi e comportamenti singolari

Articolo di Marco Masetti

Noi che la sera andavamo in centro a KL a mangiare perché Putrajaya era un po’ da povery. Noi che conoscevamo l’angolo di un aeroporto australiano dove c’era il bagno più pulito o che avevamo trovato un signore che faceva un cappuccino splendido a Indianapolis. Noi giravamo il mondo con accanimento e nessuna pietà, triturando trasferte, diventando geniali (qualche volta) e stressatissimi (più spesso) giramondo. Un po’ apolidi dentro, ma con un pass al collo. Eravamo quelli che solcavano il pianeta seguendo la MotoGP. Non quella di oggi, ma quella del primo decennio di questo millennio globale. Già, eravamo globali, ma non lo sapevamo, oppure non ci interessava più di tanto. Ci eravamo formati in un’epoca in cui, per attraversare l’Europa, dovevi portarti dietro scellini, marchi, franchi in diverse declinazioni, corone, pesete; nel dubbio anche due talleri di Maria Teresa, non si sa mai.
Con gli anni e a causa di qualche problema fisico ho ridotto il raggio d’azione, ma pur sempre incantavo la gente a Doha, raccontando di com’era piccola la città nel 2004 e di quanto avessero costruito e stravolto il tutto nello spazio di tre lustri. Bei tempi…

Il mondo globale non esiste più

Con la pandemia il mondo è tornato piccolo, anzi minuscolo, e la favola del mondo globale è stata spazzata via. Sopravvive solo nelle pubblicità che parlano di «un click e sei connesso con il mondo» o nei deliri di onnipotenza dei social, che dovevano unire i pianeta e hanno fatto emergere il fatto che fatichiamo a capirci anche tra italiani. Più o meno come quando nell’Esercito Italiano c’erano gli interpreti, che portavano una fascia rossa al braccio per far comprendere a chi era nato a sud cosa gli stesse ordinando un ufficiale di Saluzzo.
Si corre in Europa, dove ci si muove meglio, ma le contraddizioni sono tante. La Comunità Europea non ha una politica comune sulla salute e quindi tutto cambia da Paese a Paese. Soprattutto quando scopri di abitare in una zona rossa e che quindi non puoi entrare in un altro Paese, a meno di fare la quarantena. A me è capitato, come mi è successo di stare in isolamento in attesa dell’esito di un tampone. Poi però scopri, attraverso il più banale e antico dei media contemporanei, la tv, che non esiste nessuna regola. Io nel paddock non ci posso entrare e devo vedere gare con pochissimi spettatori o a porte chiuse. Poi guardo dallo schermo la F1 a Sochi e vedo tribune gremite di gente senza mascherina. Quella che io mi metto (volentieri) per portare il cagnetto a far pipì nel parchetto dietro casa. Oppure il fatto che anche in una manifestazione minore bisogna (giustamente) rispettare un protocollo di sicurezza, mentre nel calcio si vedono abbracci e ringhiate muso a muso e sputazzi a raffica.

Il mondo non è globale, un governatore di Regione comanda più di uno stato, mi par di capire. Siamo pronti a principati e signorie, al localismo spinto, immaginando di essere in un mondo globale dove un click ti fa sentire parte del tutto. Ah, le contraddizioni del sistema, affascinanti come le notti di Kuala Lumpur degli anni d’oro!

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