Le corse (costoso extra per le aziende) hanno rischiato di essere tagliate, ma sono ancora vive e vegete. Grazie a chi non si è arreso

Articolo di Marco Masetti - Foto Ducati

Non importa quasi a nessuno che in questo fine settimana per me inizi la “esima” stagione di motomondiale. Affari miei e dei miei pochi (ma buonissimi) lettori e ascoltatori con i quali abbiamo vissuto tante stagioni di sport.
L’importante è che inizi il mondiale. Certo, è luglio inoltrato, periodo dell’anno inusuale per incominciare, e fa un gran caldo a Jerez. Diciamo che in pochi farebbero un giro in moto in Andalusia alle due del pomeriggio in questa stagione. Il sole da quelle parti bombarda senza pietà e persino i piloti malesi hanno detto che un caldo così lo avevano accusato. Nessun problema, anche la settimana dopo si correrà di nuovo nel sud della Spagna. Stessa pista, stesso sole. Ma non importa, come non ha nessuna importanza che, quasi fossimo nel remoto 1949, l’anno in cui iniziò la grande storia del motomondiale, si corra solo in Europa. L’importante era ripartire, l’importante è esserci di nuovo. Ridimensionati, confinati nel continente in cui tutto ebbe inizio, con una serie di misure preventive che cozzano con l’ideale di libertà totale che abbiamo noi che ci siamo formati nell’era in cui il motomondiale non si chiamava MotoGP e i piloti fumavano e bevevano senza tanti problemi di “comportamenti etici” e “politicamente corretto”. Qualche pillola amara dovremo mandarla giù, ma si sa che le medicine non debbono avere un buon sapore, altrimenti sarebbero caramelle o bibite. Il motomondiale 2020 è frutto di tagli, notti insonni, patemi d’animo, paura di non farcela. Di “no” arrivati da organizzatori e promoter, di budget tagliati con l’accetta, di gabbie nelle quali inserire un gioco che aveva dimensioni quadruple. Governi e Dorna, politica e affari, ministeri della salute e paddock hanno interagito come non è mai successo nella storia.

Chi ha perso sono in tanti, ma è una battaglia che li ha visti sconfitti, non la guerra. E questo basta e avanza, perché nel momento più brutto, a metà marzo, quando il grande motore dello sport, l’economia, perdeva miliardi con velocità preoccupante e la gente moriva negli ospedali, si è pensato anche a dire stop. Lo affermano in pochi, ma la verità è questa: tutti hanno avuto il dubbio che la stagione 2020 sarebbe andata in archivio con solo un Gran Premio disputato, quello del Qatar, da sole due classi, Moto3 e Moto2.
E io mi alzo in piedi e batto le mani in un’ideale standing ovation a quelli che non hanno mollato e che, in un modo o nell’altro, con tagli al limite della roncolata, sono riusciti a far ripartire questa stagione di gare. Salvando bilanci familiari, garantendo una vitale boccata d’ossigeno ad un settore che, essendo “genere voluttuario”, era in odore di taglio. Perché quando c’è la crisi, quella vera, si tagliano subito “nani & ballerine”, cioè il superfluo. Le gare, nella fattispecie. Grazie a quei testardi che han lavorato duro, anche da parte mia, altrimenti sarebbe stato difficile arrivare a fine anno…

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