Giuseppe Pattoni fu una spina nel fianco per le grandi case produttrici. Con le sue moto verde primavera, sulle quali esordì pure Hailwood, gettava scompiglio e dispensava incredulità…
Articolo di Riccardo Casarini
Probabilmente chiunque di voi conosce già qualcosa sulla storia della Paton, anche solo per esser stati attirati da quel particolare color verde, sfogliando qualche rivista di settore. Quello che non si può dedurre dai listini è però la personalità di Pep, tipo caparbio e votato alla meccanica, che sul punto di lasciar perdere s’inventò questa propria marca e partì solo, alla sfida coi giganti.
Due stelle nate sotto il cielo di Man
È il 1958 quando FB Mondial abbassa la claire del suo reparto corse. Lì lavorano due tizi in gamba che fiutano un’opportunità nella sfiga, sono il meccanico Giuseppe Pattoni e il progettista romagnolo Lino Tonti, che insieme ritirano quel che avanza dal reparto, anziché prender liquidazione, e s’inventano la Paton (Pattoni-Tonti). Il loro primo atto da costruttori è quello di trasformare in bialbero qualche 125 Mondial, per gettarsi da subito nella più grande sfida: il Tourist Trophy. Non solo, si dicono di voler correre e di piazzarsi pure in alto.
Gianfranco Muscio, amico e pilota di prova, suggerisce quindi di cercare tra i rider locali, più affini alle condizioni di gara; così che Lino Tonti alza il telefono e chiama un amico giornalista per farsi dare una dritta. Salta fuori il nome di un giovane pilota, veloce, che conosce l’isola e si chiama Mike. Fa Hailwood di cognome. Per discuterne lo incontrano in Francia, a Calais; perché arrivare oltremanica costa e i soldi son quel che sono. Al ragazzo piace la proposta di quei due. E poi, la famiglia Hailwood in realtà non se la passa male, quindi che gli italiani pensino a farsi trovare sul posto con la moto, del resto si farà carico la famiglia inglese.
Arriva quindi il giugno ‘58 e con esso la gara. Nelle prove Hailwood trova buona l’accelerazione, ma lamenta poca velocità; Pep risponde che è meglio essere conservativi per puntare alla top ten. Anche qui, il resto lo mette di suo l’acerbo talento, guidando di fino e cogliendo ogni scia: in gara è nel gruppo dei 4 in lotta per il podio, solo un calo di rendimento del motore lo costringe, a poche miglia dall’arrivo, a mollare un po’. Chiude settimo e centra comunque il difficile obiettivo. Alla faccia dell’esordio mondiale in ristrettezza…
Io ballo da solo
Il ritorno a Milano segna però uno stallo. Il ‘59 è un anno sfortunato e le partecipazioni al Nazionale e all’Europeo sono segnate dalle rotture. I soldi son sempre pochi e Tonti decide di lasciare, accettando un’offerta della Bianchi. E Pep? Macché, Pep ha in mente di costruire un capolavoro, il suo bicilindrico 250. Non importa se il portafoglio piange: tira su le maniche, trova un posto alla concessionaria Lancia di Giorgio Pianta e, con quel che gli avanza tra tempo e Lire, investe nel suo progetto. Due anni di costruzione e uno di sviluppo, aiutato dall’amico d’infanzia Gian Emilio (Marchesani), che non gli chiede un centesimo. L’8 giugno ‘64 Pattoni è ancora sull’Isola di Man, insieme al pilota Alberto Pagani, disposto anche lui a sostenere un po’ di spese. Non fa solo questo Pagani, va pure forte sulla 250, finendo terzo: la Paton è tornata! Ma come?! Chi è quel meccanico part-time che senza vergogna prende a sberle i costruttori ufficiali? È Pep, quel cocciuto. Ché dal bicilindrico sviluppa il 500cc con cui Bergamonti vince un Italiano e Billie Nelson chiude al 4° posto il Mondiale ‘69. Ché per decenni a seguire spunta come un fungo diabolico nei paddock, con pochi sponsor o senza del tutto. Ché vive l’ostracismo dell’IRTA (organizzatore del Mondiale), proprio perché Pep non porta moneta, porta solo le “sue moto”. D’impressionante c’è che Pattoni adottò soluzioni mai sognate neppure dai grandi produttori, coi loro reparti sviluppo animati d’ingegneri: testate quattro valvole, distribuzioni a cascata, pacchi cambio estraibili. Tutta roba che arrivò, di fisso, soltanto anni dopo. Continuò a inventare con passione fino al 29 agosto ‘99, quando qualcosa si ruppe d’improvviso, questa volta in lui.