Santi Herrero, l’epopea di un garzone veloce

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Ha regalato agli spagnoli il furore per le competizioni mondiali. La prima vera stella del motociclismo iberico è caduta al miglio 13 di Douglas

Articolo di Riccardo Casarini
Foto: archivio OSSA, web

8 luglio 1970, Isola di Man. Santi è scivolato a Braddan Bridge nel corso del terzo giro, ma è una caduta da niente. Rialza la sua Ossa 250 e va per la rimonta, con gli occhi piantati due curve avanti e un diavolo dentro: vuole quella gara che è il sogno della vita, la vuole per lui, per Eduard Girò che gli ha dato tanta fiducia e una moto pazzesca, la vuole per la Spagna e il suo tifo ambizioso. L’anno precedente nella lightweight si era piazzato terzo, ora vede davanti a sé la terza posizione nella sagoma di Stanley Woods. Restano pochi chilometri ormai, quando raggiunge Stan, lo scalza e tira come un ossesso verso Kirk Michael e il tredicesimo miglio. Viaggiano quasi appaiati a 170 chilometri all’ora quando impostano una doppia sinistra veloce. La Ossa di Santi si intraversa, secca, pestando un amalgama d’asfalto rammollito e reso viscido dal caldo insensato di quel giugno. Woods è subito dietro e non può scansarlo. Finisce la vita e finiscono i sogni, quelli di Santi, quelli di Giró, della compagna Marisol, della sua gente. All’ospedale di Douglas, 10 giugno 1970.

Con le mani unte di grasso

Santiago Herrero Ruiz nacque a Madrid il 9 maggio 1943, da famiglia modesta. Aveva poco studio alle spalle, ma tanta buona volontà. Era apprendista meccanico nella storica officina di Gabriel Corsìn, pilota di casa MV. Fu proprio Corsìn, con occhio esperto, a intuire il potenziale di quell’acerbo chaval che allora era Santi e a spingerlo tra le braccia di Luis Bejarano, patron dell’ormai estinta Lube, che gli affidò una moto per correre nel campionato spagnolo. Gli affidò, nel 1964, va letto così: «Qui c’è una moto, lì un furgone e quella è la strada. Cerca di riportare indietro il più possibile». Il resto del tempo a lavorare, nel reparto competizioni Lube di Bilbao, dove ormai viveva stabilmente. Santiago era dotato di un purissimo talento e con mezzi discreti non tardò a ottenere brillanti risultati in 125 cc, nelle stagioni 64 e 65. Mamma Lube però, che lo aveva battezzato alle corse, non se la passava un gran bene dal punto di vista economico e presto dovette chiudere bottega. Santi si ritrovò senza un lavoro e senza un appoggio. Solo le sue mani, un furgoncino chilometrato e dei ricambi vetusti… così gli si aprirono le porte del futuro, perché i paradossi della logica sono le regole della vita, si sa. Decise di restare a Bilbao, aprire una propria officina e provare poi a correre qualche gara da privato, con una Bultaco raccattata chissà dove. 

Il mito interrotto, il binomio Herrero/OSSA

Aveva impressionato Santiago, troppo, per potersi scordare di lui. Se ne ricordò alla svelta Eduard Giró, progettista della Ossa e figlio del fondatore Manuel Giró, quando dovette cercare l’uomo giusto per sviluppare e portare in gara il suo progetto più evoluto: la Ossa 250 monoscocca, monocilindrico a valvola rotante, sorretto dal telaio scatolato in magnesio. Per l’epoca roba spaziale, meno potente rispetto alle concorrenti jappo, ma decisamente più leggera e agile. Santiago era quindi l’uomo giusto, per doti di guida naturali e conoscenza tecnica. Nel 1968 la coppia Ossa/Herrero sfidava già i giganti del Motomondiale. Chiusero settimi in campionato, dimostrando la bontà delle intuizioni di Don Giró. Ormai Santi aveva capito i meccanismi del gioco e l’anno seguente fece una prova muscolare ottenendo ben tre vittorie e altrettanti podi, presentandosi all’ultima gara in Jugoslavia a un solo punto dalla vetta iridata. Sul circuito di Opatija Herrero partì in pole per dominare, alla maniera dei campioni, finché una rottura mandò all’aria corsa e lotta al titolo. Era ormai chiaro anche fuori dai confini nazionali che Santiago voleva, poteva e doveva diventare un nuovo re del motociclismo internazionale. Così non è stato. Resterà un fenomeno incompiuto, un re senza corona, di quelli che scatenano il rimpianto per «come sarebbe andata se…» e al tempo stesso la certezza che «non sono i numeri a fare un campione». Anche la Ossa, alla quale Santi s’era legato, si ritirò definitivamente da ogni competizione velocistica. Il pegno che il Mountain Course ha chiesto al motociclismo spagnolo è stato tanto caro che ancora oggi la federazione non rilascia licenze a chi intende correre il TT. Come se il futuro, per davvero, si fosse fermato al tredicesimo miglio. 

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